venerdì 17 febbraio 2012

Perché l’Italia sta perdendo la partita dell’auto

Venerdì, 17 febbraio 2012 - 09:19:00
Giovanni Esposito
Gestire un gruppo automotive è il secondo mestiere più difficile dell'epoca contemporanea (il primo è quello di genitore), perché un conto è progettare pneumatici, ammortizzatori e motori, altra cosa è farlo per le autovetture, che rappresentano qualche cosa di diverso della somma delle parti.
Chi costruisce autovetture non realizza un mezzo di trasposto, ma vende emozioni.
Senza entrare nel merito dei risultati finanziari, né dei contratti di lavoro applicati, la prospettiva con la quale va giudicato, il commercialista-avvocato con il maglioncino da metalmeccanico, è "Il sistema Italia". In tale ottica e senza voler sminuire la complessità della sfida nella quale il dott. Sergio Marchionne si imbatte tutti i giorni, molte delle scelte di costui, dopo il 2007, risultano difficilmente condivisibili.
In un primo momento sembravano posizioni dettate, in buona fede, da una visione limitata all'immediata salvaguardia della performance economica-finanziaria; oggi, con il senno di poi, appaiono come tante mosse di un solo disegno strategico che porterà ad un drastico ridimensionamento della sovra-capacità produttiva, che, a dire il vero esiste in tutta Europa, ma si vorrebbe realizzare esclusivamente in Italia.
La teoria di "tirare il freno a mano", che dal 2008 ha procrastinato continuamente il lancio dei nuovi modelli, per quanto potesse avere una logica da commercialista, lascia perplessi: difatti difficilmente potranno servire a qualche cosa le "munizioni" risparmiate, quando la guerra nel Vecchio Continente sarà definitivamente persa. La Fiat di Marchionne in Europa è oramai un operatore marginale: se espungessimo i dati del Belpaese, dove pare ci sia ancora qualcuno disposto a comperare le auto del Lingotto (ancora per poco) globale, la quota di mercato si ferma al 3,65%.
L'operazione Lancia-Chrysler è un suicidio assistito, un'eutanasia per una delle più famose, antiche e prestigiose case automobilistiche italiane. Non esiste alcun speranza che il marchio torinese possa essere rilanciato in Europa, effettuando il rebranding di auto concepite e prodotte esclusivamente per il mercato nord americano: invero il segmento dei grandi monovolume (Voyager) è in strutturale declino da vari anni (in Italia rappresenta l'1% del mercato) ed il consumatore non apprezzerà (e come dargli torto!) una berlina (Thema) lunga oltre 5 metri, dalla linea spudoratamente "yankee" e dal brand (Lancia) semisconosciuto.
L'Alfa Romeo, dimenticando che negli ultimi otto anni è stato lui il medico, il dott. Marchionne la definisce "un bambino malato … da curare “ (e fin qui tutto chiaro) “ … ma dipende anche dal bambino stesso” (vorrebbe insinuare che le auto non si lascino acquistare?). Per il fatto che oggi vi siano solo due modelli in commercio, se fra gli innumerevoli organismi sovranazionali, fosse istituito un "Tribunale per l'oltraggio alla storia", il dott. Marchionne ne sarebbe deferito con l'aggravante della reiterazione.
Le allocazioni produttive e la presunta intrinseca inefficienza degli stabilimenti nostrani sono altre questioni che non convincono: per quale motivo abbia spostato la produzione dell'auto a minore valore aggiunto (la Panda), da uno stabilimento low cost (Tychy) a Pomigliano d'Arco dove i costi, evidentemente più elevati, non ne permetteranno mai la profittabilità, è un enigma dalla difficile soluzione. Nel frattempo il prossimo monovolume medio-piccolo (500L), che è l'unico nuovo modello (con qualche speranza di successo) è stato assegnato a Kragujevac, dopo che il locale governo serbo ha garantito esenzione fiscale fino al 2018, un contributo di 10 mila euro per ogni operaio assunto, aiuti in campo previdenziale, corsi di aggiornamento e di formazione, e stipendio da riconoscere, ad ognuno dei 2.400 assunti, 300 euro al mese; insomma aiuti in stile della nostrana defunta Cassa del Mezzogiorno. Dove si costruivano, invece, da sempre i monovolume (Mirafiori), il massimo utilizzo degli impianti (300 mila vetture annue) dovrebbe essere assicurato da due fantomatici Suv: obiettivo ambizioso, visto che in Europa il top del segmento, Volkswagen Tiguan, orgoglio dell’industria automobilistica teutonica, supera di poco le 100 mila unità. Per utilizzare in maniera ottimale lo stabilimento ex Bertone di Grugliasco, i cui dipendenti viaggiano verso il decennio di cassa integrazione, le vendite della destinata "Baby Quattroporte" dovrebbero essere pari ad oltre 50 mila vetture l'anno (tutta la gamma Maserati oggi ne vende la decima parte).
Anche il nuovo dogma del pensiero marchionniano (grande è bello), secondo il quale, per competere nel mercato globale, siano necessarie 6 milioni (secondo l’ultima “asticella”, indicante addirittura “8-10” milioni, oggi non sopravvivrebbe nessun costruttore) di vetture prodotte l'anno, non convince del tutto. General Motors, quando è fallita era il primo gruppo mondiale in termini vendite; diversamente Bmw, con numeri di gran lunga inferiori, riesce ad essere redditizia ed indipendente. Le economie di scala potrebbero essere garantite con gli accordi mirati (es. Ford Ka - Fiat 500) e la crescita raggiunta per linea interna (la Ferrero nel privilegiarla, ha costruito una storia di successo) sviluppando e valorizzando i brand. La rincorsa alle aggregazioni vuole nascondere, forse, l'incapacità di difendere le esigue quote di mercato precedentemente possedute dai singoli marchi?
Appare, quindi, evidente che il sotto utilizzo degli impianti italiani non è imputabile a contratti di lavoro, forma di organizzazione, livello di tassazione ed efficienza organizzativa (criticità sulle quali andrebbe, in ogni caso, fatta una accurata analisi), bensì alla elementare circostanza che vi si producano auto il cui gradimento del mercato è insufficiente. Meno evidente è se ciò accada per incapacità o dolo.
L’azionista familiare ha chiarito che di risorse non intende iniettarne più, anzi pretende flussi di dividendi. La separazione dell’auto, dai trattori e camion, apre si la strada a molteplici opzioni, ma tutte volte alla massimizzazione degli asset per Exor.
L’amministrazione Obama ha concesso aiuti, chiedendo in cambio garanzie per il contribuente americano. La dolorosa ed onerosa ristrutturazione dell’industria automobilistica a stelle e strisce, riducendone il surplus produttivo in linea alla potenzialità di assorbimento del mercato, ha posto le basi per la usa sostenibilità, nel medio termine, senza ulteriori sussidi. Nel vecchio continente, dove la classe politica non ha il coraggio di prendere scelte impopolari, ma per il bene comune, pur di sovvenzionare un settore afflitto da strutturale sovraccapacità installata (almeno 10 milioni di unità annue), ci si interroga sul dubbio amletico se le autovetture si vendano per costruirle oppure si costruiscano per venderle.
Venendo a Noi, l’italico sindacato, che tante colpe ha sulla sua coscienza a partire dal 1968, arroccandosi su opposte posizioni anacronistiche, fomenta l’alibi della Fiat per abbandonare la Penisola. La classe politica, vittima del consenso, presa da temi oramai solo ideologici (vedi dibattito sull’articolo 18), latita sulle grandi scelte strategiche: quando, un quinquennio fa, Marchionne si recò a Palazzo Chigi per chiedere un miliardo di euro in aiuti di Stato (prassi consolidata anche dagli altri costruttori con i governi di tutto il globo) per la sopravvivenza di Termini Imerese, si racconta che gli fecero fare due ore di anticamera; salvo rincorrere, a Fiat espatriata, pseudo imprenditori per improbabili progetti.
Quando Eugenio Barsanti inventò il primo motore a scoppio funzionate, il Giappone era immerso in un’epoca feudale ed in nordamericana si combatteva una guerra (in)civile sulla legittimità della schiavismo. Oggi, mentre questi competono per il primato mondiale dell’auto, l’Italia rischia di rimanere fuori dalla partita.
http://affaritaliani.libero.it/economia/italia-partita-auto170212.html

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